#2 Open to… discussion?
Stiamo leggendo tanti discorsi "da bar" e osservazioni che ci stanno su "Open to Meraviglia". Una cosa Testa l'ha detta giusta: siamo diventati 60 milioni di Creativi
Su Linkedin mi hanno chiesto:
La risposta sincera e onesta che ci diamo tra noi, Andrea, è che non lo saprò mai.
Partiamo dall’inizio: la campagna Open to Meraviglia del Ministero del Turismo aveva tutte le premesse per causare una shitstorm. Perché è una campagna che deve essere per forza inclusiva, e rappresentare tutti, nella sua interezza.
Toccare l'identità di una nazione significa che i tuoi clienti diventano tutti i cittadini che si sentono in diritto di esprimere la propria opinione. E noi italiani, in questo, ci sguazziamo.
Non invidio Armando Testa.
Credo che sappiano di aver lanciato una campagna che, se avessero potuto vedere nel futuro, forse avrebbero gestito diversamente. Ci sono molti punti, anche nella loro risposta pubblica, che sembrano un po' un arrampicarsi sugli specchi.
Dove sta il cliente, però?
Più di 10 anni nel settore mi hanno insegnato che i lavori incredibili e quelli che vorresti dimenticare si fanno sempre a quattro mani. Quando presento Caffeina a un nuovo manager, la descrivo come un triangolo con tre vertici: l'agenzia, le persone che ne fanno parte e i suoi clienti. I manager con cui collaboriamo e creiamo insieme.
Il "cliente" che ha scelto la campagna, che l'ha sposata, che ha dato i suoi feedback, che ha chiesto di fare miracoli con budget non sempre adeguati alle ambizioni e con tempi stretti, non lo vogliamo considerare?
Devo aprire una parentesi sul tema del budget: solo i peggiori populisti da LinkedIn possono pensare che 9 milioni di euro siano il fee dell'agenzia. Parliamo senza cognizione di causa. 9 milioni sono quasi il 50% dell'intero fatturato 2021 di Armando Testa. 😓
Spesso pensiamo che le agenzie facciano miracoli da sole, e che i creativi più titolati al mondo siano gli unici responsabili del successo di un brand. Ricordiamo che, dietro a un grande lavoro, ci sono una grande agenzia e una grande azienda, con bravi creativi e bravi manager al lavoro insieme.
Se la campagna non ci piace o, peggio, ci "offende", è giusto puntare il dito solo verso il facile capro espiatorio chiamato Armando Testa?
Secondo me non del tutto.
L’Italianità scotta.
Voglio fare un passaggio anche sul tema dell’identità della Nazione e dell’italianità, a cui ho lavorato per mesi con il nostro team in Caffeina a una campagna di comunicazione per Nutella. Si chiama Ti Amo Italia, e ci abbiamo lavorato durante i duri mesi del lockdown nel 2020.
Senza ricordare le difficoltà del periodo, mi ricordo bene l'attenzione di Ferrero nel trattare il tema dell'italianità: ogni parola, espressione, concetto, immagine, scelta veniva esaminata attentamente e valutata attraverso un processo fatto di mille domande e "What if...?".
In questo caso, il gate di checking è stato messo innanzitutto per il brand e il suo essere iconico (ah, l’ho detto che all’università sognavo di lavorare su due brand, Nutella e Barilla? Ora l’ho detto), ma era ancora più rigoroso e approfondito del solito anche per la sfida dell’affrontare il significato di essere italiani.
I my 2 cent sulla campagna: potremmo dire che il target finale non è italiano, e che mancano gli spaghetti e il mandolino nella rappresentazione cliché del key visual, dopo la pizza che funziona perché piace e sa di Italia. Forse avremmo ragione.
Tuttavia, mi chiedo se l'essenza dell'Italia sia meglio rappresentata da una pizza sul Lago di Como o da un pranzo all'Antica Macelleria Cecchini a Panzano in Chianti. Il cliché contro un esempio unico tra migliaia di esperienze possibili e uniche che l’Italia offre, grazie alla sua storia e alle sue tradizioni culturali.
L’autenticità è la forza del marchio “Italy”, che sia “Made in” o “Visit”.
Ma quella pagina sul Corriere, alla fine?
Non ho commenti particolari sulla risposta perché di fronte a una crisi così grande, si scopre come si reagisce solo quando ci si trova al centro: il tempo è poco, la crisi è inaspettata, e hai quasi tutti contro.
Ogni risposta rischia di essere sbagliata, forse anche non il rispondere.
Non critico Armando Testa per aver difeso il suo lavoro. L’avrei fatto anche io, per il team. Chi vorrebbe lavorare per (e con) un’agenzia che non sostiene le sue persone e non è la prima a credere nel proprio lavoro?
Ci sono modi diversi di difendersi, e dimostrarsi “open to” significa difendere giustamente un lavoro ancora quasi in fase teaser, ma ammettere di aver fatto errori grossolani durante il lancio.
Le immagini caricate da Whatsapp, il video di presentazione che non si è capito bene se sia un rubamatic o no - e se si, perché è stato usato sui social media dal ministero? - le traduzioni “rivedibili” dei nomi delle nostre città, e si potrebbe continuare… Cose che non hanno giustificazione ammissibile, soprattutto tenendo conto di chi sia l’agenzia da cui nasce la campagna.
Dopotutto, la verità è che ci aspettiamo il meglio dai più forti in termini di lavoro, qualità, guida e innovazione in ogni campo. E Armando Testa è indubbiamente una delle agenzie più rinomate.
In altre situazioni che riguardano me, ho imparato che ammettere un errore è uno degli atti di coraggio più difficili da compiere, e chiedere scusa lo è ancora di più.
Keep pushing.





Ciao Tiziano, riflessioni molto interessanti, credo che tu abbia toccato un tasto fondamentale: l'importanza del committente/cliente. Raramente prendo posizione, giudico o commento lavori fatti da altre agenzie, soprattutto non lo faccio se devo criticare e basta. Questo proprio perché so quanto conta l'ingerenza di un cliente sull'output finale.
Non voglio giudicare neanche questa volta il lavoro fatto da Testa; perché di certo io — direttore creativo di una piccola agenzia di provincia — credo di poter insegnare poco a una delle agenzie più importanti d'Italia e inoltre perché il committente pesa e pesa molto. Il punto è che noi che lavoriamo in agenzie, uffici marketing etc. troppo spesso ce ne dimentichiamo, ma bisogna anche vedere da dove arrivano le critiche. Nel nostro mondo c'è ancora molto dilettantismo e troppo spesso si critica tanto per far vedere che “noi sappiamo come si fa”, mentre questa cosa spesso dimostra il contrario e cioè che si dimenticano — o peggio ancora non si conoscono — le dinamiche che sono il pane quotidiano di chi fa questo lavoro.
Quante revisioni fanno venire l'orticaria ai creativi, quanti progress saltati all'ultimo minuto fanno venire l'ulcera ai project manager eppure è così che funziona. Ci sarà chi obietterà che saper fare il proprio lavoro significa non far “uscire” output non all'altezza (e già stiamo facendo un esercizio soggettivo), ma io la penso diversamente: il nostro lavoro è fare il meglio con i limiti che ti impone il cliente. E noi, in questo caso, questi limiti non li conosciamo.
Non voglio prendere neanche in considerazione le critiche del tipo “il mio falegname con 30€...”, mi sembra inutile parlarne. Per non parlare delle chiacchiere sul budget, vuol dire davvero non sapere di cosa si parli. Se però affrontiamo la cosa in maniera più profonda capiamo che quello che è successo a Open to meraviglia succede ogni giorno in ogni ambito. Siamo 60 milioni di creativi, vero, ma siamo anche 60 milioni di allenatori, di virologi, di politici, di industriali, etc. etc. etc. Quindi quello che questo episodio mi fa pensare è semplicemente che poche persone si fermino a guardare le cose provando a capirle, che la superficialità sia il vero problema di questi tempi. Quali siano le cause non lo so, ma io — nel mio piccolo — preferisco leggere e ascoltare senza sentirmi obbligato a giudicare con leggerezza il lavoro di tante persone con la presunzione di saper fare meglio. Quindi ben vengano le opinioni intelligenti, i dibattiti aperti e le osservazioni fatte da persone competenti ed misurate come te. Ecco una parola che mi piace molto: misura.
Grazie